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Le dimensioni dell'informazione
Giornata di studio AIB Piemonte-ISKO Italia
Torino. Biblioteca civica Geisser : 12 giugno 2004
Adesso aprirei la discussione dando innanzitutto la parola a Eugenio Gatto, che partecipa a questo tavolo non tanto come relatore, ma quanto appunto come colui che vuole aprire la discussione con una serie di punti critici, di cose che si è appuntato... io vedo un sacco di fogli, adesso sentiremo!
È un privilegio che ho chiesto e mi è stato concesso, di non prepararmi: effettivamente di cercare di aprire la discussione -- è una posizione che cerco sempre abbastanza -- in base a quello che qui ho sentito, esattamente come l'avete sentito voi. Poi ovviamente tutti siamo diversi e abbiamo basi diverse, quindi forse quel che abbiamo sentito lo interpretiamo in modi diversi.
Ovviamente a qualcosa ho pensato, nei giorni scorsi: a cosa avrei mai potuto dire se per caso qui non avessi sentito niente; e invece ho sentito, gli spunti ci sono, ma posso certamente attribuire una specie di titolo (i miei titoli tendono ad essere ridicoli) a quello che intendo dire, che è: "A righe o a quadretti?".
È una metafora che ho usato altre volte e si riferisce a un'esperienza che probabilmente abbiamo tutti: nelle scuole elementari la maestra dice "facciamo adesso un problema, tirate fuori il quaderno", e immancabilmente c'è il bambino che chiede "a righe o a quadretti?" "Ma se facciamo un problema..." Però questa faccenda dei quadretti e delle righe è una cosa che probabilmente ci ha stampato il nostro modo di affrontare i problemi, talvolta con esiti molto controproducenti.
Tant'è vero che -- e qui riesco facilmente a ricollegarmi a cose sentite -- Ranganathan è stato poco usato, poco capito (le due cose vanno del tutto insieme) perché considerato difficile e astruso: tutto il mondo l'ha considerata "una roba da matematici", perché Ranganathan era un matematico (io direi piuttosto un fisico, si potrebbe dire quasi un ingegnere...).
Ma quello che in Ranganathan era sicuramente riconoscibile era, con una locuzione sola, architettura dell'informazione. Non c'è assolutamente da subodorare nessuna disgiunzione tra la biblioteconomia e l'architettura dell'informazione, non c'è mai stata: se la connessione viene scoperta adesso è perché adesso qualcuno scopre che i bibliotecari avevano fatto qualcosa di utile, un centinaio d'anni prima che qualcun altro pensasse che ci volesse della tecnologia per farlo. Della tecnologia già la usava Ranganathan: era una tecnologia cartacea, manuale, che riusciva a funzionare in mano a degli indiani, che suppongo non fossero del tutto analfabeti, perché il sistema di notazione usato viene accusato di eccessiva complessità; eppure lavorava in biblioteche reali mettendo in ordine i libri sugli scaffali con quei numeri di classificazione, per complicati che sembrino ai nostri occhi. Ci lavorava nel 1928.
Non ha avuto occasione di, o ha deciso di non, occuparsi di calcolatori per un pelo. In realtà Ranganathan ha introdotto alcuni aspetti di faccettazione nella CDU proprio negli anni Sessanta, quando i calcolatori già c'erano, si era studiato information retrieval parecchio (il grosso dell'information retrieval è stato fatto negli anni Sessanta, non dopo), nell'epoca in cui è stato rapporteur général della FID; e ha influito su certe evoluzioni della CDU, una delle quali è l'uso del : per la relazione di fase. La CDU attualmente dichiara di volersi orientare a essere completamente a faccette, poi lo è o non lo è...
Questo è un altro punto interessante da notare: esistono le classificazioni non a faccette? No, sulla faccia della Terra non esiste una classificazione che non sia a faccette, da Aristotele in qua per lo meno, perché tutte le classificazioni si fanno con quel metodo; poi è questione di quanto uno sia conscio, o voglia o neghi l'utilità di esprimere queste faccette nel descrivere quello che ha fatto. Può esserci la soluzione drastica della Bliss che per prevenzione ideologica dice "non voglio assolutamente che i numeri esprimano quello che abbiamo fatto, voglio solo che servano per mettere nell'ordine che abbiamo stabilito", e quindi una notazione puramente inespressiva. Ci sono altre classificazioni che vogliono esprimere.
Ci sono delle cose che per me è difficile riconoscere come classificazioni (nel senso della parola che attribuiamo alle classificazioni di uso bibliotecario: ci ritorno) perché usano le faccette ma poi si fermano, cioè analizzano ma non sintetizzano. Mentre l'espressione che alcuni hanno esplicitamente considerato ridicola, analitico-sintetico, l'endiadi voluta da Ranganathan, è invece una questione metodologica fondante per la classificazione bibliotecaria nel senso di Ranganathan, dato che con quell'espressione distingue chiaramente (e qui non si può non essere d'accordo con Revelli, che ha detto tutto esattamente come sta) due cose diverse, l'analisi e la sintesi, che però vanno insieme. Le si esprime poi con quel che si vuole: Ranganathan non si proponeva di dare la classificazione come strumento universale unico di accesso, diceva che era uno strumento, si rendeva conto che sarebbe stato superato da altri, lo dice esplicitamente: questa classificazione qui prima o poi non servirà più (lui stesso ne ha fatte sei edizioni diverse, la settima non è più lui vivente, è successiva), fra qualche anno verrà buttata via del tutto e ne faremo un'altra. Ma i principi resteranno quelli.
Ranganathan (a differenza di quelli tra noi che cercano strumenti normativi senza il perché delle norme...) non fa praticamente niente di normativo: fa sì dei grossi manuali pratici di norme che sono sulle 600-700 pagine, eppure non ha nessuna intenzione di fare "la norma", se non come strumento del momento per l'uso pratico di chi deve lavorarci. Distingue nettamente fra la figura del classificazionista e la figura del classificatore: il classificazionista è quello che progetta una classificazione, il classificatore è quello che la applica.
Non è affatto così monolitico e monomaniaco della classificazione come sembrerebbe passare nella vulgata ordinaria: Ranganathan è un poverino che condivide con Darwin, Mazzini e altri il fatto di essere nominato da tutti ma senza grandissima conoscenza diretta di quel che ha detto. Ha scritto un libro fondamentale sulla teoria della classificazione, un libro credo molto sconosciuto, un libro che non parla della Colon Classification -- l'ha scritto a posteriori, dopo aver lavorato sulla sua classificazione --, parla in realtà con esempi pressoché pari di Classificazione Dewey e di Colon Classification, e cerca di mostrare che le stesse cose ci sono nell'una e nell'altra, solo risolte ed espresse in modo diverso, ma il problema è lo stesso: sono i "Prolegomena to library classification". Senza di quello secondo me di Ranganathan non si capisce niente, perché è lui che spiega sé stesso, e soprattutto dichiara gli n (un n tendente a infinito) punti di cui lui stesso non ha capito niente, cioè dove ha dovuto fermarsi.
Perché una classificazione condivide con ogni altra classificazione, quelle naturalistiche comprese perché di lì si parte, il fatto di occuparsi di cose che esistono: e le cose che esistono sono complicate, dobbiamo semplificare soltanto per certi usi e scopi, ma non possiamo togliergli la complessità, possiamo far finta di non vederla. Una cosa certissima in Ranganathan è l'aspetto naturalistico della classificazione: lui osserva quel che deve presentare, non è assolutamente normativo, lui vede i libri nella sua biblioteca che sono così, e dice: allora per certi scopi conviene metterli in quest'ordine. Per metterli in quest'ordine -- la questione dell'ordinamento è vitale nelle nostre classificazioni -- lo strumento comodo è uno strumento che innanzitutto analizzi, tagliuzzi nelle diverse caratteristiche secondo certe tecniche e poi, in base a una ben precisata grammatica e sintassi, risintetizzi l'insieme.
Negli esempi visti che ho in mente, soprattutto gli ultimi perché davvero esistono sulla faccia della Terra, siamo ancora fermi molto indietro, perché in un normale approccio linguistico oltre al lessico ci sono la grammatica e la sintassi; tutti questi esempi visti sono puramente lessicali, e quindi siamo solo a un inizio di razionalizzazione di quelle che finora sono state lo strumento prevalente e preferito, le keywords, le parole-chiave. Si dice: quando questo vocabolario di parole-chiave diventa un minestrone, cominciamo a dividerle in gruppetti che si somigliano. Stiamo riapplicando principi generali di classificazione, cioè "dobbiamo fare ordine", ma quello era lo scopo di Ranganathan e normalmente di tutti noi nelle biblioteche: tenere le cose un po' ordinate in modo che ci si capisca.
Quindi continuerei a insistere sull'idea che dietro le nostre classificazioni c'è l'obiettivo di ordinare; l'abbiamo perso molto. Ad esempio non sarebbe difficile, per quel poco residuo di classificazione -- quello classico: la Dewey -- che abbiamo nei nostri cataloghi informatizzati, usarlo come criterio per far vedere i libri ben disposti. Trovatemi un catalogo in rete che usi la classificazione ad alcunché... [1] Non dico classificazione o soggettazione come filtro: classificazione almeno come ordinamento; se va bene per ordinare gli scaffali (supponiamo pure che sia uno scopo minimale), il sottoinsieme di libri che mi interessava che ho estratto dal catalogo fatemelo vedere in ordine, come lo vedrei negli scaffali. Ne ho visto solo uno, una dozzina di anni fa, di catalogo che tentava questo, la Boston University credo, che aveva una possibilità di mostrare i risultati delle ricerche chiedendogli di ordinarli in "shelf order". Noi attualmente siamo abituati a cataloghi che danno il risultato in totale disordine: di solito il primo che viene fuori è quello che da più tempo abita in quell'archivio e l'ultimo è l'ultimo introdotto, o viceversa, cioè ordine cronologico di accessione. Qualche opac un po' più furbo permette di schiacciare un tastino che dice "ordinameli per titolo, ordinameli per autore": non siamo neanche ancora alla funzione più banale delle classificazioni, che è tenere i libri in buon ordine sugli scaffali in modo che la gente ci si possa orizzontare e avere dei risultati che, anche grazie alla serendipità, possano essere notevoli proprio per il fatto che cose affini sono vicine a loro simili.
Questa questione dell'ordinamento è quella che probabilmente rovina tutta la comprensibilità di Ranganathan, l'ha reso ostico. Ci siamo fatti, grazie ai quaderni a quadretti della scuola elementare, l'idea che la matematica serva a poco. Alle medie probabilmente a molti di noi hanno insegnato l'algoritmo, piuttosto complesso, per estrarre la radice quadrata: è un algoritmo rognosissimo, nessuno se lo ricorda più (io non me lo ricordo), il difetto è che non ci hanno spiegato il perché: perché è fatta così la procedura per arrivare alla radice quadrata di un certo numero?
In tutti i libri di Ranganathan, di qualunque cosa parli se parla di biblioteche, sul verso del frontespizio c'è il perché: le cinque leggi sono lì, le cinque leggi sono il perché. Nella pagina di fondo del quaderno a quadretti delle elementari invece abbiamo sempre visto una cosa che era intitolata "tavola pitagorica" (Pitagora era un altro di quelli buoni che hanno trattato malissimo...). Chi di noi mai ha trovato un'utilità a quel riquadro di dieci per dieci caselle, chi di noi sa la tavola pitagorica in base a quella cosa lì che c'era dietro il quaderno?
Noi andiamo a righe. È il mio modo di ridire una frase che dice Ranganathan: che per la maggior parte di noi la classificazione è un funzionamento mentale [2]. Noi funzioniamo a faccette -- molti di noi. E funzionare a faccette vuol dire andare a righe, e non andare a quadretti. Non c'entra niente l'incasellamento. È tutta una cosa fluidissima, libera; non di lunghezze fisse, sempre di lunghezze variabili; non di caselle predeterminate, sempre di caselle da determinare in base a quel che ci serve. È una cosa, come dico, a righe. Chi si è fatto l'idea -- da quegli esempi deleteri -- che la matematica sia una cosa a quadretti, ovviamente ha lasciato la matematica più in fretta che ha potuto perché non serve a niente fatta in quel modo.
Sono molto convinto (non ho documentazione, non saprei dove trovarla) che Ranganathan, dotato di molto fiuto come altri prima di lui che si sono occupati di queste cose, fosse al corrente degli sviluppi recenti di filosofia della scienza, in particolare Peano, soprattutto attraverso la divulgazione di Russell [3], 1902: l'epoca è del tutto possibile perché si tratta degli anni Venti, studiava nelle scuole inglesi, è andato in Inghilterra (Ranganathan era a Bangalore, attualmente il centro dell'alta tecnologia indiana)... quindi poteva essere perfettamente patrimonio acquisito per un matematico o fisico negli anni subito dopo la Prima guerra mondiale.
E di lì allora mi viene la mia proposta di chiamare questi metodi semplicemente multidimensionali. Il multigerarchico è legato al multidimensionale una volta che si ponga un significato di gerarchia in ogni dimensione, cioè ci sia un ordinamento voluto (se no può anche non essere un ordinamento, allora resta solo multidimensionale ma senza essere multigerarchico).
Perché multidimensionale? È detto chiarissimamente nello studio sui fondamenti della matematica a quell'epoca, nel cercare di definire che cos'è un vettore: un vettore è una direzione nello spazio. Come la si rappresenta? Posso raffigurarla, "di qui a lì", ma se devo scriverlo su un pezzo di carta (perché noi andiamo a righe, e per esprimere abbiamo bisogno di lingua, grammatica e sintassi, dobbiamo scriverlo a qualcuno), come faccio a rappresentargli il vettore da qui a lì? Allora si usano dei trucchi per cui si istituiscono delle dimensioni, si chiamano coordinate cartesiane, che un ingegnere subito vi dice "si fanno con la regola della mano sinistra": pollice, indice e medio messi a angolo retto l'uno rispetto all'altro, asse x, asse y, asse z. Si danno le coordinate sui tre assi (più di tre dimensioni non riusciamo a visualizzare) e si dice: il vettore è quella cosa che va dal punto d'origine (punto 0, l'incrocio dei tre assi) a quel punto dello spazio che è descritto dalle tre coordinate, cioè (battaglia navale...) mi sposto di 5 sulla x, mi sposto di 6 sulla y, mi sposto di 2 sullo z, le tre coordinate sono "5, 6, 2". Sono riuscito a descrivere in parole (i numeri sono soltanto una forma di parole) una cosa che altrimenti su un pezzo di carta non mi ci stava.
Ma, con questa cosa fondamentale in tutta la matematica, arrivano delle cose che sono fondamentali anche per noi, che poi si sono chiamate ordine di citazione, inversione dell'ordine nell'ordinamento [4], ecc. L'ordine di citazione cos'è? Devo fare una convenzione, devo decidere chi dico prima: x, y, z...?
Dove sta la complicazione di Ranganathan? Semplicemente che ha esplicitato questa cosa nella notazione. Aveva bisogno di un qualcosa che fosse ordinabile, e ha pensato che il modo più semplice di farlo fosse di dire le cose come stavano, cioè: nella dimensione tale, tanto; nella dimensione talaltra, tanto; nella dimensione talaltra, tanto. E lo scrive, scrive le coordinate: ogni faccetta cos'è? L'allontanamento in quella dimensione, la dimensione della personalità, della materia, dell'energia, dello spazio, del tempo -- magari fossero solo cinque, sembra che sian cinque... Supponendo che quelle siano le cinque faccette che più o meno ci sono sempre, che servono sempre (esserci c'è qualunque cosa, è quel che ci vediamo che conta), abbiamo una classificazione pentadimensionale, con cinque dimensioni, e io la esprimo nel modo più semplice dicendo semplicemente qual è la distanza in ciascuna delle dimensioni. Ovviamente poi ci sono delle dimensioni di cui in quel caso non val la pena parlare quindi non ne parlo neanche.
A cosa servono i segni di punteggiatura nella notazione di Ranganathan? Semplicemente a dire di cosa sto parlando, sono i nomi delle faccette: faccetta di personalità, faccetta di materia, faccetta di energia, di spazio e di tempo. Se ci trovo l'apostrofo è di tempo, se ci trovo il punto è di spazio, se ci trovo i due punti è d'energia, se ci trovo il punto e virgola è di materia, se non ci trovo niente è personalità perché è sempre la prima, non ho bisogno di indicarla. Perché ci vogliono i segni di punteggiatura? È banale: perché posso togliere quelle che non ci sono [5]. Altrimenti sarei "a quadretti", avrei sempre bisogno di quei cinque disgraziati quadretti da tenere vuoti quando son vuoti.
Purtroppo sono arrivati i calcolatori, ci hanno convinto che noi funzioniamo a quadretti. Già il nome è una disgrazia in sé, prelude al disastro, perché il calcolatore non ha mai calcolato niente nella storia, non è mai esistito un calcolatore che abbia calcolato: applica soltanto delle formulette per ottenere dei risultati da certi simboli numerici ad altri simboli numerici, non calcola niente! Quello che si chiama calcolo in Inghilterra è qualcosa di più nobile che da noi, è quella cosa di cui si occupavano Leibniz e Newton (l'hanno inventato loro, non si sa chi l'abbia rubato all'altro): il calcolo infinitesimale, che è tutt'altra cosa di quello che noi chiamiamo calcolo, che è l'aritmetica. I calcolatori non servono a calcolare, servono a fare un lavoro di manipolazione di simboli, tra cui ci sono anche i simboli numerici, le cifre.
È un'altra cosa che ci hanno insegnato ad odiare, perlomeno nelle medie, perché ci facevan fare le espressioni, e noi credevamo, ci volevano far credere che l'importante fosse arrivare a un risultato che era un numeretto uguale a quello che c'era nella parentesi quadra al fondo dell'espressione: se ti viene quello è a posto. Non ci hanno spiegato che ci stavano insegnando una delle cose più fondamentali, che è la manipolazione di simboli in base a regole: si risolvono prima le parentesi tonde, poi le quadre, poi le graffe, le moltiplicazioni si fanno prima delle addizioni, eccetera. È tutta una questione di manipolazione di simboli.
Non avendolo interpretato di solito in quel modo, non abbiamo mai capito cosa facciano i calcolatori. Che fanno esattamente quel mestiere lì -- son veloci, lo fan bene, eccetera. Quindi dei calcolatori abbiamo una visione taumaturgica: fanno delle cose strane, delle bellissime cose perché poi, una cosa sull'altra, la faccenda diventa veramente complicata, e andare ad analizzare per scoprire dov'è il nucleo primario del problema e cosa quindi ci interessa realizzare per primo, ad esempio quando dobbiamo mettere in macchina un sistema di classificazione di quelli che interessano a noi, è dura.
Ad esempio il problema degli equivalenti verbali, che ovviamente sono più appetibili della notazione. Ne ho parlato finora: la notazione è una cosa ostica. Ranganathan non ha mai previsto che nessun utente -- lui li chiamava ancora lettori, io preferirei chiamarli lettori -- usasse i numeri di classificazione in un qualche modo, non gli è mai passato per la testa, non l'ha mai scritto da nessuna parte. Servivano ai bibliotecari per rimettere i libri al loro posto giusto negli scaffali, servivano ai bibliotecari per mettere in ordine sistematico giusto le schede del catalogo sistematico -- che è esattamente l'immagine del catalogo topografico, con l'eccezione che può contenere più schede per ciascun oggetto (di libri negli scaffali ne posso mettere uno solo, mentre nel catalogo sistematico se un libro è multifocale ovviamente lo spargo in tutti i posti dove merita spargerlo). Basta! Gli utenti andavano per equivalenti verbali, dato che sapevano leggere, essendo dei lettori... leggevano, leggevano in parole.
Un obiettivo non raggiunto da Ranganathan, in cui dopo tutto forse non ha creduto tanto neanche lui, però forse ci ha provato, ha cercato in ogni modo nel suo schema di classificazione di inserire gli strumenti per farlo, è quello che è chiamato chain indexing: il ricavare delle stringhe di soggetto, equivalenti verbali dei numeri di classificazione, valide, cioè linguisticamente comprensibili a una persona vagamente tollerante, direttamente dall'interpretazione dei numeri di classificazione. Cioè di far vedere la corrispondenza biunivoca tra i numeri di classificazione e gli equivalenti verbali; perché quello che scriveva nelle schede-guida nello schedario erano gli equivalenti verbali oltre ai numeri di classificazione. L'indice accessorio non è solo accessorio, è un indice importantissimo, qualunque classificazione ne ha bisogno: non si va a numeri, si va a concetti, che normalmente esprimiamo meglio a parole che a numeri. Il numero qui, per complesso che sia, è un espediente tecnico che serve a rappresentare la rete sottostante (che non è una, è quella che abbiamo deciso che ci serve in quel caso); è un numero che non è un mucchietto di parole-chiave: è un numero che esprime lo schema di classificazione a cui appartiene (che implica decisioni filosofiche, storiche, eccetera), lo esprime con una certa grammatica e sintassi predeterminata in modo tale che sia meccanicamente usabile.
È questa l'enorme sconfitta di Ranganathan, reale, pratica, che dobbiamo per forza vedere: l'unico strumento che sia stato inventato, nel 1928, per essere usato dai calcolatori, i calcolatori non li ha mai visti, nessuno si è mai sognato di applicare quello che Ranganathan aveva detto parola per parola: "si fa così, se fate così funziona". Non ha saputo scriver bene, ha stampato i suoi libri in India, che ne so...
[Segue dibattito]
1: Si vedano gli sconfortanti risultati dell'indagine Opac semantici <http://www-dimat.unipv.it/biblio/sem/>, ispirata anche a simili osservazioni espresse da Gatto nella precedente tavola rotonda "Quali spazi per le classificazioni?".
2: "La classificazione [...] è intrinseca all'Uomo. Forse è legata alla finitezza della velocità degli impulsi nervosi nel corpo umano. Laddove la velocità è finita, emergono strutture. Dovunque vi è struttura, emerge una successione. Quando la successione è conveniente allo scopo presente, essa è Classificazione." (Prolegomena to library classification, SRELS, 1967, paragrafo CP2)
3: Giuseppe Peano e Bertrand Russell pubblicarono ricerche basilari sui fondamenti logici della matematica, tra cui i concetti di numero e di successione dei numeri.
4: Per il principio di inversione, all'interno di un soggetto conviene che le faccette si susseguano nella sequenza invertita rispetto a quella con cui sono elencate nelle tavole dello schema; la sequenza invertita, detta ordine di citazione, è riassunta da Ranganathan nella sigla PMEST, ossia le faccette di personalità, materia, energia, spazio e tempo disposte in quest'ordine.
5: Usando un classico esempio di Ranganathan, il soggetto "Prevenzione delle malattie del riso nella stagione secca a Madras" è analizzato in Agricoltura [classe principale], riso [P], malattie [M], prevenzione [E], Madras [S], stagione secca [T] ed espresso con la notazione J381;4:5.4411'e1
. In un soggetto in cui invece le faccette E e S non siano espresse, come "malattie del riso nella stagione secca", si scriverà invece J381;4'e1
, dove il punto e virgola e l'apostrofo servono a indicare che le faccette che seguono sono rispettivamente M e T, e non E e S che mancano.
Questa tecnica "a righe" è analoga a quella delle basi-dati in cui ciascun campo è introdotto da un apposito marcatore, invece di utilizzare "a quadretti" campi a lunghezza fissa, che rimangono vuoti se inutilizzati. In matematica, se il vettore manca di una dimensione, questa viene espressa con valore 0, ad esempio "5, 0, 2".
A righe o a quadretti?... / Eugenio Gatto = (Le dimensioni dell'informazione : giornata di studio AIB Piemonte-ISKO Italia : Torino : 12 giugno 2004 : atti / a cura di Caterina Barazia e Claudio Gnoli = (ISKO Italia. Documenti)) -- <http://www.iskoi.org/doc/dimensioni4.htm> : 2006.01.05 -